03 Ago L’Olocausto (gitano) dimenticato, mezzo milione di vittime rimosse
La copertina del libro del 2020 «Attraversare Auschwitz.
Storie di rom e sinti: identità memorie, antiziganismo»,
a cura di Eva Rizzin (Gangemi editore).
La copertina del libro di Robert Domes «Nebbia in agosto»,
(traduzione di Anna Carbone e Cristina Proto, Mondadori 2017).
“Il culmine fu nella notte tra il 2 e 3 agosto 1944 ad Auschwitz: tremila, tra sinti e rom, furono massacrati. Spesso ai colpevoli di quelle stragi furono inflitte pene irrisorie”.
Ricordo che quella mattina il primo pensiero fu quello di andare a dare uno sguardo al di là del filo spinato. Non c’era più nessuno, c’era solo silenzio…
Ci bastò dare un’occhiata ai camini dei forni crematori che andavano al massimo della potenza per capire che quella notte, tutti, tutti gli zingari di quello che chiamavano lo Zigeunerlager erano stati assassinati. Tutti…».
Piero Terracina, uno degli ultimi testimoni della Shoah, sopravvissuto ad Auschwitz, morto un paio d’anni fa, aveva un groppo in gola quando tornava a parlare di quell’alba lontana.
Conosceva bene quel campo al di là del reticolato:
«Era denominato lo Zigeunerlager, il lager degli zingari. (…) C’era tanta vita, noi avevamo un colore quasi unico, eravamo vestiti con quella specie di pigiami a righe, dall’altra parte avevano conservato i loro abiti, quindi tanto colore, avevano conservato i capelli, noi eravamo completamente rasati a zero, c’era un’enormità, tantissimi bambini…».
Finché, la notte prima, lui e gli altri prigionieri ebrei avevano sentito i camion, l’arrivo di reparti tedeschi, i cani che abbaiavano rabbiosi, le urla delle donne, il pianto disperato dei piccoli:
«Poi all’improvviso, dopo più di due ore, silenzio. Non si sentiva più niente».
Solo il vento che faceva sbattere porte delle camerate totalmente svuotate:
«Il ricordo di quelle porte che battevano con il vento e non c’era nessuno che le fermasse mi è rimasto dentro…».
Furono tremila su trentamila, secondo un dossier della storica francese Henriette Asséo sulla rivista «Etudes Tsiganes», i rom sopravvissuti ad Auschwitz.
Un decimo.
Tutti gli altri morirono di fame, di stenti, di freddo o «passati il camino» come quei 2.998, «soprattutto donne e bambini piccoli», decimati quella notte tra il 2 e il 3 agosto del 1944.
Ed è quella appunto, dal 2015 (solo dal 2015: dopo decenni di imbarazzi e rimozioni), la data scelta per la Giornata europea di commemorazione del genocidio dei gitani.
Che molti ricordano come il Porrajmos («lo stupro» o «il divoramento», ma il termine è contestato), altri come il Samudaripen: lo sterminio.
Quanti furono gli zingari (altra parola contestatissima per quanto usata con rispetto e affetto dagli ultimi Papi a partire da Paolo VI, da giornalisti come Orio Vergani, da musicisti come Enzo Jannacci…) spazzati via nell’ondata di odio razzista parallela a quella vissuta dagli ebrei?
Difficile rispondere.
Il polacco Tadeusz Joachimowski, racconta Luca Bravi nel libro Attraversare Auschwitz. Storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo, a cura di Eva Rizzin (Gangemi), era il prigioniero incaricato di segnare su due libri gli ingressi di sinti e rom, maschi, femmine, bambini.
Un attimo prima che i nazisti si ritirassero sotto l’avanzata dei russi dopo aver cercato d’occultare le tracce della loro ferocia, riuscì a nascondere i volumi avvolti negli stracci in un secchio sepolto sottoterra: dovevano essere salvati.
Proprio perché a fronte dell’immensa mole di ricordi, libri, lettere, filmati, deposizioni processuali della Shoah, il «popolo viaggiante» ha conservato del genocidio subìto molto poco…
Questo vecchio secchio restituì appunto un paio di migliaia di nomi. Ma gli altri?
Quanti furono, gli assassinati?
C’è chi sostiene: da duecentomila a un milione.
Ipotesi.
«Diciamo che convenzionalmente si pensa a mezzo milione di vittime», risponde lo storico Leonardo Piesare, autore di più libri sul tema tra cui I rom d’Europa (Laterza).
«Ma è quasi impossibile contarle, ormai. La larga maggioranza non era in grado di lasciare resoconti scritti.
I documenti sovietici desecretati, inoltre, rivelano come i nazisti, nell’Europa dell’Est conquistata, annientassero al passaggio interi villaggi, spesso di sinti e rom stanziali, contadini già colpiti dalla repressione di Stalin».
Non bastasse, accusa la Treccani, pesarono sulle stragi i pregiudizi storici:
«Anche a Norimberga non fu riconosciuto il carattere razziale del genocidio e nessun parente delle vittime fu quindi risarcito».
Di più: agli eccidi pianificati da Heinrich Himmler (che peraltro aveva deciso inizialmente di stralciare la sorte di un po’ di «ariani puri» appartenenti in teoria allo stesso ceppo di lontane origini indiane dei tedeschi, ma da non confondere coi «meticci») presero parte volenterosi assassini, cittadini comuni che si sentivano autorizzati dalle leggi hitleriane a macellare ogni zingaro dei dintorni.
Una strage.
Dai numeri incalcolabili.
Erano secoli, del resto, che in Europa arrivavano ondate di «permessi» di quel genere.
Basti citarne, tra i tanti, uno nostrano.
Della Serenissima Repubblica di Venezia, che nel 1558 stabilì che chi avesse consegnato alle autorità uno zingaro ricevesse dieci ducati «possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territori Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori (gli assassini, ndr) per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena».
Incoraggiamenti, diffusi, alle cacce all’uomo.
Basate, come nel caso dello sterminio dei disabili, sulla autorizzazione ai medici a «concedere una morte pietosa» a chi viveva «vite indegne di essere vissute».
Compresi non solo i non autosufficienti colpiti dalle patologie più invalidanti, ma anche quanti erano bollati come inutili e incorreggibili. Tipo Ernst Lossa, un ragazzino rom «eutanizzato» perché «troppo vivace» (ne parlano il libro Nebbia in agosto di Robert Domes, Mondadori, e il racconto teatrale Ausmerzen di Marco Paolini) nel manicomio di Irsee, a un’ottantina di chilometri da Monaco.
Dov’era caposala la famigerata Mina Wöhrle, l’infermiera nazista condannata per 210 omicidi («Ho solo eseguito gli ordini») a diciotto mesi di carcere.
Due giorni e mezzo di galera a delitto. Per non dire del primario, Valentin Faltlhauser, teorico della soppressione a basso prezzo «per fame» e degli esperimenti sui bambini: tre anni.
Evaporati con la concessione della grazia.
Il tutto, come ricorda la storica Henriette Asséo, nonostante nessun medico fosse «mai stato obbligato a partecipare» ai «più spaventosi esperimenti».
A partire da quelli prediletti da Joseph Mengele, sugli «zingari gemelli». Racconta Rita Prigmore, un’anziana sopravvissuta bavarese di etnia sinti nel libro curato da Eva Rizzin:
«Il 3 marzo 1943, siamo nate mia sorella Rolanda ed io. Subito dopo la nascita gli uomini della Gestapo vennero a prenderci e ci portarono in un ospedale. Werner Heyde ci sottopose a esperimenti medici.
Mia mamma era spaventata e non poteva reggere quella situazione di angoscia e di paura… Così entrò nell’ospedale dove eravamo rinchiuse e, dopo molte insistenze, riuscì a convincere un’infermiera che le mostrò solo me.
Mia madre insistette per vedere anche mia sorella Rolanda. L’infermiera cercò di resistere, di negarsi, ma alla fine la portò in bagno e le indicò il corpicino di Rolanda steso sul fondo di una vasca da bagno: era morta.
I medici le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi per tentare di cambiarle il colore…».
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